Ludovica Palmieri

Biennale d’Arte a Venezia

Biennale d’Arte a Venezia in collaborazione con Mentinfuga

Le sfide poste da questa 59ª Biennale d’Arte di Venezia erano davvero tantissime. La pandemia; la guerra; l’incertezza. Le intenzioni di Cecilia Alemani erano ottime. Dare spazio alle donne come mai prima d’ora; eliminare le discriminazioni; creare un percorso fluido. Insomma, le premesse per una Biennale, nuova, diversa, più aperta all’onirico, all’irrazionale, alla fantasia, c’erano tutte.

Solo che, a mio parere, per evitare le discriminazioni, l’effetto ottenuto è stato quasi l’opposto. In altre parole, mi pare che la ricerca a tutti i costi di artiste donne, o binarie, possa aver generato qualche forzatura.
Lo stesso titolo, Il latte dei sogni, affascinante, potente, poetico, che sembra finalmente liberarci da una realtà difficile, problematica, per proiettarci in un mondo di speranza e fantasia, cela una nota fatalmente drammatica. Tratto dall’omonimo libro di favole di Leonor Carrington (1917-2011), nell’ottica della curatrice, il titolo della Biennale rimanda alle sofferenze subite dall’artista surrealista. Come se lo scotto da pagare per la libertà di pensiero – metaforicamente rappresentata dal Latte dei sogni – fosse l’emarginazione. Ora, al di là della vicenda specifica, trovo fondamentale la distinzione tra fantasia e malattia mentale, sperando che, oggi, il binomio “arte=pazzia” sia stato superato.

Emma Talbot, Arsenale
Emma Talbot Where Do We Come From? What Are We? Where Are We Going? 2021. Acrylic on silk 310 × 1400 cm.
All works with the additional support of Max Mara; British Council; the Henry Moore Foundation.
La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Foto Roberto Marossi

Un’altra cosa che mi ha lasciato un po’ perplessa sono i tre filoni tematici intorno ai quali ruota l’esposizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. Sebbene si tratti di temi molto accattivanti e perfetti per seguire il nobile intento di fluidità e gender equality della mostra, a mio parere, rischiano di assimilare eccessivamente l’essere umano a ciò che umano non è.
Mi spiego meglio.
Penso che le metamorfosi siano un processo passivo, caratteristico del mondo animale; mentre gli esseri umani si trasformano, secondo un processo attivo che implica il pensiero, il sogno e la volontà.
Ritengo che le tecnologie non siano in rapporto con gli esseri umani ma semmai al servizio degli stessi. In altri termini, penso che le tecnologie siano strumenti e come tali vadano utilizzati. Insomma, non vorrei immaginarmi, un domani, innamorata di un robot.
Infine, per quanto la nostra esistenza sia indissolubilmente legata a quella della Terra che, dunque, va tutelata e protetta; direi che mi sembra eccessivo farne anche l’oggetto del desiderio, per una comunione totale – anche sessuale –  come proposto nel video dell’artista cinese Zheng Bo.

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