Ludovica Palmieri

4 5 6, al Vascello un cult di Mattia Torre

Mattia Torre un autore da tutto esaurito

Un dramma tragicomico dall’inaspettato finale heideggeriano. Dopo l’esordio del 2011 al Piccolo Eliseo e numerose rappresentazioni negli anni in varie città; il fortunato 4 5 6 di Mattia Torre, torna al teatro Vascello di Roma, accolto da una platea gremita e calorosa, tutto sold out fino al 3 marzo, tanto da dover aggiungere, per le numerose richieste, un’altra replica sabato 2 marzo, riconfermando il suo successo anche nella Capitale e, soprattutto, il grande affetto del pubblico per l’autore e gli attori.

456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi La famiglia
456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi La famiglia

Come sempre nelle opere di Mattia Torre il contesto è tutt’altro che banale. In una valle di lacrime e fantasia, isolata dal resto del mondo, che ricorda vagamente la desolazione di una certa provincia italiana, lo spettacolo porta in scena le dinamiche tanto morbose quanto universali di una famiglia che, spaventata dal mondo esterno, dal diverso e dal cambiamento, lo rifiuta per chiudersi in se stessa, senza rendersi conto che ciò di cui avere paura sta proprio lì.

Gli attori

456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi gli attori
456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi gli attori

Sul palco i quattro splendidi attori per cui Mattia Torre ha concepito lo spettacolo: Massimo De Lorenzo: Ovidio, pater; Cristina Pellegrino: Maria Guglielma, mater; Carlo De Ruggieri: Ginesio, il figlio, un tantino datato per i suoi 19 anni e Giordano Agrusta, Treti Gargiulo, l’ospite tanto atteso e depositario del futuro; che, in un dialetto immaginario, peculiarità dell’opera, inventato interamente dal brillante autore e regista, litigano e si accapigliano per questioni assolutamente inutili.

Il linguaggio in Mattia Torre

La comunicazione, o meglio l’incapacità di comunicare è un tema portante, in cui comicità e violenza procedono strettamente legate tra loro. Il particolarissimo linguaggio, derivato da un accurato processo di destrutturazione linguistica e dalla bizzarra crasi di dialetti di matrice meridionale, con un tocco di sardo e di latino, alimenta le incomprensioni e, quindi, la vena comica, già molto forte, per quanto amata, della pièce.

456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi L'ospite
456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi L’ospite

Fatti accaduti anni prima infiammano gli animi di questi personaggi che tutto sommato, chiusi nella loro ignoranza e grettezza, non hanno nulla da dire se non rimestare eventi passati, proprio come fanno da quattro anni con il sugo della buonanima di nonna.

Ogni personaggio ha le sue caratteristiche

Sullo sfondo di una casa, che si risolve in un immensa cucina, con un capocollo che incombe al centro della scena, i tre protagonisti vivono nell’attesa di un misterioso ospite su cui ripongono tutte le speranze per il “futuro”.

Ogni personaggio ha le sue particolari caratteristiche che si rivelano nel rapporto scontro con gli altri e nel rapporto con se stessi, durante i momenti di “raccoglimento”.

Le trovate sceniche sono a dir poco brillanti e rivelatrici di una particolare fetta dell’Italia che l’autore guarda con sguardo divertito ma profondo, affettuoso e partecipe mai distaccato o cinico. La quotidianità gira intorno al cibo, tanto che Ginesio, Carlo De Ruggieri, l’unico che per ragioni anagrafiche manifesta ancora un anelito vitale, definitivamente soppresso nel finale, in un momento sconsolato afferma: “La vita non può essere solo un susseguirsi di insaccati e cibo”. E invece sì, perché per i due gretti genitori il sugo: diventa una questione di principio; la tiella: un pezzo d’anima; il menù della cena: una litania, da sciorinare a più non posso come un salvifico mantra.

Lo sguardo di Mattia Torre critico ma non cinico

Tra le amare risate 4 5 6 tocca tematiche profondissime. Tra le quali: la violenza domestica, esercitata anche con parole d’amore, come quando Ovidio, dichiara alla moglie: “Amore mio, un’altra parola sulla tiella e ti faccio provare dolore, ma dolore vero…”. La paura del diverso e dello sconosciuto che si esplica nella rappresentazione di una Roma vista come un girone dell’inferno. La religione, interpretata in chiave funzionale, di cui il racconto della vocazione di Treti è un magistrale nonché esilarante esempio. E la morte che si rivela nell’inaspettato, heideggeriano finale, come unica speranza per il futuro. Ma non voglio dire di più.  

L.P.

 

456 di Mattia Torre foto di Alessandro Cecchi
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